Gli stereotipi e il ruolo della fiducia
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Il sesso dell'analista conta, ma fino ad un certo punto.
Non è facile ammettere che qualcosa possa un giorno sfuggire al proprio controllo e che, talvolta, ci sia bisogno di rimettersi completamente in discussione. Tanto più che, durante una psicoterapia, tutto può accadere. Soprattutto rendersi conto che si è imboccata una strada cieca e che ci si è incastrati, fin da piccoli, in dinamiche familiari complesse e tortuose. E' allora che interviene la figura dell'analista, angelo tutelare dei propri segreti più reconditi, che dovrebbe poterci aiutare a ricominciare tutto da capo. Ma come fare se non ci si fida?
Quando si comincia una psicoterapia, spesso si arriva con una serie infinita di "perché" cui si vorrebbe avere una risposta il più velocemente possibile. Solo che, strada facendo, ci si rende conto che alcune risposte non arriveranno mai. E che il ruolo del terapeuta è soprattutto quello di prenderci per la mano e accompagnarci in un lungo viaggio all'interno di noi stessi. E' per questo che ci si deve poter fidare della persona cui si affidano le proprie angosce, i propri dubbi, i propri tormenti. Ed è per questo che è tanto difficile "guarire". Perché quella che quasi tutti chiamano guarigione, in realtà, è un cambiamento talvolta impercettibile del proprio modo di osservare il mondo. Anche se è proprio questo cambiamento che può poi aiutarci a non riprodurre gli stessi errori.
Allora è inutile dire che il sesso del terapeuta o dell'analista non conta. Non perché le competenze o le capacità abbiano un sesso, ma perché quando si comincia una psicoterapia si proiettano sull'analista tutta una serie di fantasmi e aspettative che dipendono necessariamente anche dal sesso di colui o colei con cui si parla. E' il famoso gioco del transfert e del contro-transfert. Quando nella relazione analitica "accade" qualcosa che va oltre la semplice comunicazione razionale. Quando ci si rende conto che è proprio perché si ha fiducia nella persona che ci sta di fronte e che ci lascia andare, si capiscono delle dinamiche ingarbugliate da cui non si riesce ad uscire da soli e si cerca di cambiare. Non esistono regole universalmente valide. Non è vero che per una donna sia sempre meglio una terapeuta e che per un uomo, invece sarebbe meglio un altro uomo. Tutto dipende da quello che si vuole "riparare" o anche semplicemente "capire". Certo, bisognerebbe poter avere la scelta. Ed è un peccato che siano sempre meno uomini che decidano di fare i terapeuti. Ma è assurdo credere che una terapeuta non vada bene per un uomo, solo perché si tratta di una dona. Pensarlo, significa solo essere prigionieri degli stereotipi. Quegli stessi stereotipi che talvolta sono all'origine del malessere che si cerca di sormontare. Quegli stessi stereotipi che troppo a lungo hanno impedito agli uomini di riconoscere le proprie debolezze, di domandare aiuto, e eventualmente di imparare a stare meglio con se stessi. Come chiunque. Visto che ognuno di noi, nella vita, deve prima o poi fare i conti con la propria interiorità, ammettere di non essere onnipotente e accettare di convivere con le proprie fragilità.
(tratto da: La Repubblica del 31 Maggio 2011)